È il giugno del 1929: un articolo del Messaggero dell’epoca, conservato in biblioteca Carducci, titola: “Reliquie romane negli orti di Spoleto”.
Mentre esegue lavori di sterro, un agricoltore, proprietario di alcuni terreni coltivati a vite nella zona di via delle Felici, si imbatte in numerosi resti di vestigia architettoniche e finisce per trovare nel proprio orto un piccolo tesoro fatto di «basi rettangolari di marmo, scolpite; di frammenti di colonne, di capitelli fogliati, di marmo; di lastroni, ugualmente di marmo e di calcare locale, sui cui sono rappresentati animali e ornamenti floreali».
L’area, fertile e feconda per i prodotti della terra, lo è anche nel restituire reperti del passato, giacendo in una parte della città, subito fuori le mura dell’antica cinta urbica e a valle della chiesa di San Simone, caratterizzata da complesse stratificazioni storiche. E proprio all’interno di quell’appezzamento di terreno di cui parla “Il Messaggero” nel 1929, si era tentato, una decina di anni prima e per l’ennesima volta, di effettuare scavi archeologici; scavi promettenti per la congerie di materiale ritrovato ma tutt’altro che decisivi perché non effettuati in maniera organica e sistematica.
Quell’orto terrazzato, dal cui terreno spuntano – si vede bene nella foto del giornale di 90 anni fa- due arcate a tutto sesto, è probabilmente il luogo esatto dove sorgeva una delle chiese più antiche di Spoleto, un edificio già esistente nel VI secolo, intitolato a San Marco, citato più volte da Gregorio Magno come edifico di culto annesso all’importante monastero di San Marco Evangelista in pomeriis, in cui visse l’abate Eleuterio. Già nel la prima metà del ‘500 la chiesa era in condizioni precarie e alla fine del ‘700, martoriata dalle infiltrazioni e interrata fino alle finestre, si decise di demolirla sostituendola con una nuova, piccola chiesa – tutt’ora esistente e anch’essa da anni in forte degrado – da costruire attigua all’antica. Oggi, della chiesa del VI secolo, si distinguono ormai a malapena, soffocati dal terreno e dalla vegetazione, i due archi della probabile cripta.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, le saltuarie campagne di scavo nella zona di San Marco avevano portato in luce diverso materiale riferibile al periodo romano, in coerenza con una lunga tradizione, citata anche nell’articolo del “Messaggero” e in guide coeve della città, attestante la presenza di un santuario romano fuori le mura dedicato alla dea Venere, in particolare alla Venus Felix, da cui il nome di via delle Felici. Una versione che Achille Sansi nella sua “Storia di Spoleto” tratta con evidente scetticismo: «…sarebbe vana fatica il cercare a qual deità potesse essere stato dedicato; né io vorrei abusare della sofferenza del lettore, abbandonandomi, ove mancano notizie, in braccio alla fantasia, facile interprete d’ogni cosa. Pure accennerò che quel nome di Via delle Felici o Via Felice, come anche fu detta, potrebbe destare il pensiero che quello a cui menava fosse il tempio di Venere, che per regola rituale si soleva porre fuori della città. È una congettura o a meglio dire una pura fantasia, che ha però un curioso riscontro; ed è che la Chiesa di S. Marco, che sarebbe succeduta a quel tempio, e forse nelle ragioni del medesimo, aveva un possedimento detto Massa di Venere».
Due cose sono invece indubbie: una, come dicevamo all’inizio, è la ricchezza stratigrafica di un’area che ha lasciato testimonianze preziose riferibili a varie epoche. Basti pensare al mosaico pavimentale, databile al periodo di fondazione del monastero, quindi al VI secolo, fatto di marmo e di pietra policromi, che ora è conservato al Museo del Ducato della Rocca Albornoz.
L’altro fatto certo è la necessità della salvaguardia e del recupero di una zona che rappresenta un elemento importantissimo della storia artistica della città sui cui insiste un monumento del primo cristianesimo. L’idea e l’augurio con cui si chiude il pezzo del “Messaggero”, nonostante sia stato scritto quasi cento anni fa, suona ancora di stringente attualità, viste le condizioni in cui versano i resti: “Un saggio di breve durata sul terreno degli orti di S. Marco, sotto una sapiente direzione e con operosi sterratori, non potrà che persuaderci di interrogare ulteriormente il sottosuolo della nostra città. Per ora, e chi sa per quanti anni ancora, la riposta è e sarà affidata al benedetto piccone!».
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