Accadde a Spoleto: Lawrence Ferlinghetti al Festival dei Due Mondi

Giugno 1965. Quando Lawrence Ferlinghetti si emozionò al Caio Melisso, durante l’VIII Festival dei Due Mondi

«Sono un poeta americano che è volato fin qui da Londra con abiti invernali e uno zaino pieno di fogli, per leggere poesie in americano e ascoltarle tradotte in italiano al Festival di Spoleto […] è strano sedere in questo paesaggio italiano, guardare le rondini volteggiare su un giardino a Spoleto, il sole del mattino sulle colline in lontananza, cielo bollente bianco-blu…»: è il giugno del 1965 e il cantore della ‘insurgent art’, uno tra i maggiori ispiratori dell’universo beat, personalità tra le più influenti della controcultura USA racconta del suo soggiorno a Spoleto nelle pagine del “Diario Italiano”.

Del suo rapporto speciale con la città vogliamo parlarvi in occasione della sua recente scomparsa, per la rubrica “Accadde a Spoleto”.

Nel 1965 Ferlinghetti viene scelto per dar vita, insieme ad altri insigni scrittori, ad un happening letterario che dal 26 giugno al 2 luglio richiama a Spoleto non solo tanti intellettuali ma anche folle di curiosi. Lo ricorda Salvatore Quasimondo che nel programma del festival dell’anno successivo sottolinea come «per iniziativa e su invito di Giancarlo [sic] Menotti ventiquattro poeti di fama nazionale e internazionale, occidentali e d’oltre cortina, provenenti dall’Europa e dalle Americhe, lessero in pubblico le loro poesie per tutta una settimana durante il festival dei Due Mondi». Bill Berkson nel memoir “Spoleto 1965” specifica che fu lo scrittore e critico d’arte Frank O’Hara a scegliere su richiesta di Menotti la delegazione di artisti statunitensi.

Menotti ha scommesso che può creare un’esperienza di insolita intensità concedendo al pubblico di ascoltare pagine di poesia sentendone declamarne i versi dalla voce stessa del poeta, col privilegio di poter assorbire il ritmo e la sonorità della parola associandoli alla gestualità recitante e alla presenza scenica dell’autore. Al Caio Melisso, quella settimana di 56 anni fa, si avvicendano una trentina di artisti, del calibro di Evtušenko e Quasimodo, Neruda e Pasolini, Bachmann e Alberti.

Ferlinghetti si esibisce il 30 giugno, un mercoledì. Nel suo Italian Journal – le cui pagine sono state recentemente raccolte nel volume “Scrivendo sulla strada. Diario di viaggio e letteratura” – c’è molto spazio per i suoi ricordi di Spoleto. Già editore e fondatore della mitica libreria ‘City Lights’, installabile agitatore culturale, autore di una raccolta poetica seminale e popolarissima come Coney Island of the Mind, Ferlinghetti si lascia andare ai ricordi e alle impressioni di quelle giornate spoletine attraverso una prosa rapsodica e inesorabile. Ne vengono fuori ritratti al fulmicotone come quello su Evtušenko, poco incline a socializzare con i colleghi e con il pubblico, che arriva e se ne parte in limousine e che durante la sua esibizione fa sfoggio di toni teatralizzanti e pose plastiche così marcate che lo stesso Ferlinghetti si diverte a ribattezzarlo “il discobolo di Mosca”.

Ma oltre al sarcasmo ci sono pagine di profonda emozione, parentesi in cui il racconto narrativo di Ferlinghetti trascolora in slanci e aperture liriche, come quando assiste alla performance di un malfermo Ezra Pound, il vecchio poeta dei “Cantos”, così lontano e diverso da Ferlinghetti ma capace di suscitare in lui, con la malia della sua voce, un sorprendente sentimento di dolcezza, di empatia e di compenetrazione, che finisce per riverberarsi sul paesaggio spoletino. È un brano che vale la pena di riportare quasi nella sua interezza per gustarsi l’emozionale trapasso linguistico, senza soluzione di continuità, tra prosa e poesia e per accorgersi di come Spoleto ha giocato un ruolo importante in tutto questo:

«Sono salito su un palco al Teatro Melisso, l’incantevole sala rinascimentale dove ogni giorno si tenevano le letture di poesia e i concerti da camera del festival di Spoleto, e all’improvviso ho visto Ezra Pound per la prima volta, immobile come una statua cinese, su un palco in una balconata in fondo al teatro, una fila sopra le poltrone in platea. E stato uno shock, vedere soltanto un vecchio straordinario in una posa curiosa, esile e con i capelli lunghi, aquilino a ottant’anni, la testa stranamente inclinata da un lato, perso in un’astrazione permanente […] Tutti in sala si sono alzati, si sono voltati a guardare Pound sul suo palco, hanno applaudito. L’applauso si è prolungato e Pound ha tentato di sollevarsi dalla poltrona […] Di colpo c’era silenzio in sala. La voce mi ha travolto, cosi dolce, cosi sottile, cosi fragile, cosi fermamente ostinata. Ho appoggiato la testa tra le braccia sulla balaustra del palco ricoperta di velluto. Sono rimasto sorpreso nel vedere una singola lacrima cadere sul mio ginocchio. La voce sottile, indomita, ha continuato. Me ne sono andato dal palco alla cieca, dalla porta sul retro, nel corridoio vuoto fuori dal teatro, dove gli altri, ancora, sedevano rivolti verso di lui, sono uscito fuori, nel sole, piangendo…

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